Una metodica che negli ultimi anni si è largamente diffusa: partorire in acqua.
L’idea di poter partorire in questo setting viene sempre più spesso accarezzata dalle future mamme, ma effettivamente porta dei vantaggi?
In parte sembra di si.
I dati
Dai dati finora disponibili della ACOG – American College of Obstetricians and Gynaecologists – questa metodica sembra poter ridurre in maniera notevole i tempi del primo stadio del travaglio (cioè il periodo dilatante) e ridurre il ricorso a tecniche farmacologiche per i controllo del dolore e partoanalgesia.
Insufficienti, invece, sono i dati sulla sicurezza totale o dei benefici materni e fetali della tecnica: la percentuale di lacerazioni vaginali spontanee non sembra così ridotta rispetto al parto fuori dall’acqua, nè le variabili del parto (distocie di spalla, emorragia post-partum, ritenzione di placenta, atonia uterina, ecc) che sembrano verificarsi alla stessa frequenza dentro e fuori dall’acqua.
Più importante, su tutti, è il criterio infettivo (e ACOG pone l’accento su questo punto): le strutture che decidono di mettere a disposizione questa opzione devono rispettare rigorose norme igieniche affinchè acqua, vasca e tubature non ospitino focolai infettivi.
Inoltre garantire che l’addestramento del personale sia costantemente aggiornato e valutato e che la strumentazione necessaria all’assistenza in acqua o al repentino passaggio fuori dall’acqua sia sempre adeguata.
Questo vuol dire che si, la possibilità di un parto in acqua è una realtà (anche VBAC!), a patto che venga programmato in strutture adeguate e ben preparate a garantire il successo della metodica.
Questo vuol dire che – sarò ahimè impopolare! – partorire nella propria vasca da bagno e senza assistenza non è proprio l’idea migliore.